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"IL LABORATORIO: luogo del lavoro, della fatica, del mestiere"



Dal 1982 Giuseppe Celi con la sua famiglia vive in un quartiere periferico di Catanzaro, separato dalla città da uno stretto ponte. E davvero l'accesso al suo laboratorio, non poteva che compiersi attraverso un sottile passaggio che, spalancato sull'abisso di una profonda vallata, mette in contatto l'al di qua con l'al di là. Il ponte, come lo sguardo dell'artista, è la lente attraverso cui il reale si ribalta nella sua immagine speculare. Il laboratorio, un ambiente isolato dal resto della casa che si affaccia ad ovest su un giardino argenteo, fitto di ulivi, è il punto d'approdo di tutto quello che la città con noncuranza si scrolla di dosso. Ad esso ci si accosta come ad un recinto sacro all'interno del quale ogni cosa preannuncia un rito che può compiersi solo se ci si libera da ogni residualità urbana, da ogni sovrastruttura o scoria di pensiero. Nella lentezza del laboratorio manichini, cavalletti, scatole scollate, cartoline scolorite, brocche sbeccate, vecchie macchine fotografiche, utensili vari, strappati al loro sonnolente torpore dallo sguardo compassionevole dell'artista, recidono ogni legame con la quotidianità. Il silenzio assorto, cadenzato dallo strofinio dei pennelli e impregnato dell'odore pungente dei colori, si allarga, penetra tutte le cose scarnificandole; gli schemi gerarchici con i quali la città imbriglia e addomestica ciò che produce vanno in frantumi. Tra gli scaffali ingombri e sovraccarichi di oggetti svuotati di ogni senso abituale, lo spazio si rapprende, diventa denso. Da una mensola all'altra, relazioni, tanto più essenziali quanto più silenziose, si intrecciano tra le cose, in un intricato gioco di rimandi. Celi si ritrae e osserva; lascia che gli oggetti tentino tutte le combinazioni possibili, scartino da sè gli incastri più astrusi e, in fine, si ricompongano in sistemi nuovi e significanti. E' questo il momento dell'Arte ed è questo il suo luogo. Non sulla tela ma nel laboratorio essa si invera. All'artista non resta che raccogliere quanto è già in atto, trasferirlo sulla tela e compiere lo scambio finale, tra reale e immagine. Il reale, libero da ogni impedimento, raffigurato nella sua scarna nudità e nei suoi soli legami essenziali, sembra quasi che sia sul punto di svelare il mistero a quanti hanno preso parte al rito. Ma per questa volta l'approdo è negato; non resta che un silenzio vibrante che, annullando la finitezza della tela, avvolge in un'unica trepidante attesa gli oggetti riposti sugli scaffali e i loro simulacri.

                                                                                      R.B.

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